L'autonomia differenziata rischia di aggravare i divari fra cittadini di diverse aree del Paese. Quante volte l’abbiamo letto e ascoltato negli ultimi mesi? Vale per la sanità, per i trasporti e per molti altri servizi fondamentali, dallo sport al governo del territorio, dall’energia alle attività culturali.
Come educatore e ricercatore, sono molto preoccupato, in particolare, per i possibili divari che si verranno a creare nel mondo dell’istruzione. Non mi riferisco solo ai dati economici e di contesto come, ad esempio, il dato secondo cui le 5 regioni che hanno i tassi di uscita precoce dal sistema scolastico più elevati sono le 5 maggiori regioni del Mezzogiorno, con gravi ripercussioni non solo per i giovani interessati, ma per la società nel suo complesso. O, passando all’Università, al fatto che secondo i dati MUR nelle regioni del sud la percentuale degli studenti universitari in “no-tax-area”, ossia esonerati dal pagamento delle rette universitarie, è pari al 46%, mentre al nord tale percentuale scende al 30%, con evidenti impatti sui bilanci degli Atenei del sud.
Quello che mi preoccupa di più è il dato culturale e prospettico. Con il disegno di autonomia differenziata ci saranno 23 materie che saranno di competenza esclusiva delle Regioni. Su questi temi, a valle di accordi fra Stato e Regioni, il Parlamento non sarà più chiamato a legiferare per l’intero Paese. Le materie oggetto degli accordi passeranno alla competenza esclusiva delle Regioni ad autonomia differenziata, che potranno trattenere il relativo gettito fiscale. Non è solo un problema di redistribuzione delle risorse. Con questo meccanismo, il Paese finirà con il perdere importanti processi di approfondimento, confronto e, soprattutto, sintesi, che sono propri delle dinamiche parlamentari. Un problema di tenuta del Paese, prima ancora che un danno alle regioni del sud.
Venendo allo specifico dell’istruzione, dopo decenni di retorica secondo cui la scuola deve preparare a un lavoro, e non alla vita, oggi rischiamo di veder sorgere una nuova retorica che vuole la scuola impegnata a rispondere alle vocazioni dei territori. Ossia, soddisfare le esigenze di personale dei sistemi produttivi locali. Mi chiedo, cosa succederà per quelle regioni che, per motivi storici e per dinamiche globali, evidenziano oggi un ritardo economico-sociale che non consente di sostenere la domanda di formazione avanzata? Dobbiamo aspettarci che le ragazze ed i ragazzi di queste regioni finiranno con l’avere un’istruzione diversa, tagliata sulle esigenze di un contesto debole con un’oggettiva scarsa propensione ad innovare? In principio, l’autonomia non solo potrà tradursi in programmi diversificati, ma potrà anche significare regole diverse per la valutazione degli studenti e per la selezione dei docenti.
Una tale visione, unitamente al fatto che fra le materie oggetto di autonomia differenziata figura anche la ricerca scientifica e tecnologica, rischia di cristallizzare ed amplificare i divari tra territori. Una Scuola chiamata a rispondere alle esigenze correnti dei tessuti produttivi, con figure immediatamente spendibili nei contesti in essere, e non a creare visione e competenze in grado di cambiare i territori, e i relativi sistemi produttivi, sarebbe un danno per i giovani, privati degli strumenti culturali necessari a muoversi in un mondo sempre più globale e interconnesso. Ma sarebbe un danno anche per i territori e per il Paese.
Lasciatemi fare un piccolo esempio che riguarda il nostro Ateneo, anche se l’ambito universitario non è direttamente interessato da questo provvedimento di autonomia differenziata.
In questi giorni stiamo lavorando alla definizione del bilancio sociale 2022-23 e dai dati raccolti emerge che il 52% dei nostri laureati lavora fuori regione, spesso nelle regioni del nord o oltre i confini nazionali. Un dato sicuramente negativo, che denota la scarsa capacità del territorio di offrire a questi giovani condizioni favorevoli per la realizzazione dei propri progetti di vita. Un indubbio fattore di impoverimento del territorio, che vede andar via le risorse più qualificate, quelle che potrebbero contribuire al riscatto.
Ma il dato ha anche una lettura positiva. La presenza di un Ateneo di qualità sul territorio ha consentito a questi giovani di crescere culturalmente e professionalmente, dando loro la possibilità di affermarsi con successo nel contesto globale. Dato, quest’ultimo, corroborato dai risultati dell’indagine AlmaLaurea di recente pubblicazione, che a 5 anni dalla Laurea fa registrare per i laureati UNISANNIO un salario leggermente più alto della media nazionale.
Chiediamoci cosa sarebbe successo a questi giovani con un sistema dell’istruzione completamente localizzato. Quale sarebbe stato il loro destino se avessero seguito un percorso formativo pensato esclusivamente in funzione della domanda locale di lavoro? Non rischia di essere, questo, un incentivo per gli studenti delle aree deboli del Paese a scegliere da subito di abbandonare il loro territorio nella speranza di formarsi in contesti più sfidanti e innovativi?
L’istruzione deve aprire ai nostri giovani le porte del mondo e, al contempo, deve aprire i territori al mondo, metterli in grado di innovare e di rigenerarsi. E per fare questo deve avere un respiro nazionale ed europeo.
Investire in istruzione è, oggi più che mai, urgente. Questo investimento non può che essere fatto con un intervento pubblico nazionale, superando la logica dei tagli fatti sulla base di parametri di scala che non tengono conto delle fragilità territoriali. Un investimento che punti a potenziare il sistema dell’istruzione dove ce n'è più bisogno, al sud e nelle aree interne a rischio spopolamento.
Indebolire la scuola e l’università nelle aree più deboli del Paese non comporterebbe solo un ulteriore impoverimento di quelle aree, ma finirebbe con il rendere l’intero Paese più debole e vulnerabile. Visto in tale prospettiva, il provvedimento sull’autonomia differenziata rischia di avere conseguenze negative più gravi di quelle legate solo alla diversa redistribuzione delle risorse derivanti dalla fiscalità.