Sono nato a Nocera Inferiore (SA) il 03 Agosto 1963 e sono Professore Ordinario di Ingegneria Informatica presso l’Università degli Studi del Sannio, Benevento.
Appassionato educatore e curioso ricercatore, ho sempre ritenuto fondamentale valorizzare l’intreccio tra ricerca ed insegnamento come strumento per la creazione e la trasmissione dei saperi.
Sono sposato con Rosa Ferrara, donna forte, paziente e capace di strappare un sorriso anche nelle situazioni più difficili. Io e Rosa abbiamo due magnifici figli, Benedetta, estroversa e determinata, e Mario, silenzioso e pieno di domande.
Nella stagione calda amo girare in moto fra le nostre belle colline, con i loro vigneti, i borghi antichi e gli affascinanti panorami; Benedetta, Mario e Rosa sono i miei passeggeri preferiti.
Il 23 e 24 novembre in Campania si vota per il rinnovo del Consiglio Regionale e del Presidente della Regione. Partiti e coalizioni hanno messo in moto le loro macchine elettorali e i candidati si stanno presentando ai territori per raccontarsi e raccogliere consensi.
I sondaggi si susseguono implacabili, con le immancabili dichiarazioni di netto vantaggio di una parte o di forte recupero dell’altra. Il convitato di pietra di questa competizione elettorale, però, rimane l’astensionismo, che rischia di diventarne il vero protagonista.
Per evitare che un numero sempre più alto di elettori decida di non recarsi alle urne è importante far sì che la campagna elettorale si concentri su problemi concreti e delinei soluzioni praticabili e sostenibili. Per questo ho deciso di proporre a tutti i candidati tre temi. Si tratta di problemi che ho maturato nel corso della mia esperienza ultratrentennale di docente universitario presso l’Ateneo del Sannio, e che rivestono, a mio avviso, una grande importanza, ai fini dello sviluppo dell’Università e del territorio.
Il primo è il tema dei trasporti. Le evidenti carenze del sistema di trasporto nelle aree interne penalizzano fortemente gli studenti, costringendoli spesso a rinunciare agli studi o a spostarsi verso atenei di altre regioni. Ai candidati vorrei chiedere quali impegni concreti intendono assumere per migliorare i collegamenti da e verso Benevento, così da evitare che i disagi dei trasporti continuino a pesare sulle scelte universitarie degli studenti sanniti, e sui bilanci delle famiglie.
Il secondo tema è quello della sostenibilità economico-finanziaria. Il sistema di finanziamento ordinario (FFO) penalizza gli atenei di piccole dimensioni situati in territori svantaggiati, soprattutto a causa del meccanismo del costo standard, che prevede dimensionamenti di riferimento per i Corsi di Laurea in termini di studenti frequentanti. Ai candidati vorrei chiedere di esprimersi sulla possibilità di dare vita a un FFO regionale con l’obiettivo esplicito di riequilibrare gli effetti distorsivi del costo standard e sostenere università, come la nostra, che operano in territori con minore capacità di attrazione.
Infine, vorrei porre il tema dell’attrazione di imprese, tema strettamente collegato a quello dell’occupazione giovanile. La nostra Università forma competenze di alto livello, ma troppo spesso queste energie non restano sul territorio. Se vogliamo davvero motivare i giovani qualificati a restare nel Sannio, non basta chiedere alle imprese di venire a produrre: dobbiamo attrarre aziende che progettano, che decidono, che investono in conoscenza. Solo così si può creare un indotto stabile, fatto di competenze, ricerca e innovazione. Ai candidati vorrei chiedere quali politiche pensano di mettere in campo per favorire l’insediamento e la crescita di imprese che vedano nel nostro territorio il cuore decisionale e progettuale.
In un momento in cui la sfiducia rischia di prevalere, l’unico modo per ridare senso alla politica è tornare ad ascoltare i territori e parlare di scelte concrete. Il Sannio e le aree interne non hanno bisogno di assistenza o di privilegi, ma di visione.
Il Mattino, 9.11.2025
La traccia di un breve intervento tenuto in occasione dell'apertura della Stagione 2025/26 dell'Accademia di Santa Sofia. Un piccolo viaggio in un territorio inesplorato e affascinante, il territorio in cui arte e tecnologia si incontrano per dare vita a nuove forme di creatività.
Iniziamo questo viaggio con una domanda: che cos’è, in fondo, l’arte?
Le risposte date a questa semplice domanda sono praticamente infinite, ma per il piccolo viaggio che stiamo intraprendendo prendo a prestito le parole di Paul Klee, quando diceva che “l’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è”.
Ogni epoca ha avuto la sua arte, e ogni arte ha raccontato il proprio tempo: le sue paure, i suoi sogni, la sua idea di futuro.
Nel Medioevo l’arte serviva a rappresentare il divino; nel Rinascimento, a celebrare l’uomo e la prospettiva del mondo; nel Novecento, a raccontare il caos, la velocità, la frammentazione della modernità, la moltiplicazione dei punti di vista.
E oggi, nel tempo dei dati, la bellezza si riscrive anche attraverso la tecnologia.
In realtà, arte e scienza non sono mai state così lontane come spesso crediamo.
I pittori del Rinascimento erano anche ottici, chimici, ingegneri: Leonardo studiava il moto dei fluidi e l’anatomia, e questo aveva influenza diretta sulla sua pittura; Piero della Francesca usava la matematica per costruire la prospettiva. Persino i pigmenti, i pennelli, le vernici — tutto era frutto di ricerca tecnica e sperimentazione.
E se passiamo alla musica, l’evoluzione degli strumenti ha costantemente cambiato l’arte del comporre: dal clavicembalo al pianoforte, dal violino barocco a quello romantico, dal liuto rinascimentale alle chitarre elettriche, ogni innovazione tecnologica ha aperto nuovi orizzonti creativi, nuove possibilità espressive, nuovi timbri, nuovi virtuosismi.
L’arte è sempre stata legata a doppio filo agli strumenti utilizzati per produrla; in fondo, la storia dell’arte è sempre stata anche una storia di strumenti.
A un certo punto, però, qualcosa cambia. Nel Novecento si rompe il legame tra arte e abilità manuale, tra arte e artigianato. Non è più solo la mano a creare, ma l’idea.
Quando Marcel Duchamp, nel 1917, firma un orinatoio come “R. Mutt” e lo intitola “Fontana”, l’arte diventa concettuale: non conta più l’abilità, ma lo sguardo.
Come scriveva Arthur Danto, un oggetto diventa arte quando è collocato nel contesto che lo rende interpretabile come tale.
Da quel momento, l’artista non è più solo chi sa fare, ma chi sa vedere. E da lì nasce una nuova libertà: tutto può diventare arte, se riesce a farci pensare o sentire in modo diverso.
Oggi viviamo in un mondo dove ogni gesto, ogni movimento, ogni decisione lascia una traccia digitale.
Queste tracce — i dati — sono diventate nuova materia prima della creatività. L’arte data-driven è, in fondo, un’estensione dell’arte concettuale: invece di partire da un oggetto, parte da un flusso di informazioni.
È un modo per chiedersi: “guardiamo cosa raccontano i numeri, non con la mente del matematico, ma con gli occhi dell’artista”.
Le nostre vite digitali — i passi contati dallo smartphone, le foto condivise, le temperature della città, i dati del traffico o dell’inquinamento — diventano pigmenti immateriali, che l’artista rielabora per restituirci un ritratto nuovo del mondo, del tempo che viviamo.
Due esempi fra tanti.
L’artista Refik Anadol trasforma milioni di immagini in flussi visivi generati dall’intelligenza artificiale: è come se la macchina sognasse, e noi potessimo osservare i suoi sogni.
E poi ci sono installazioni come quelle di Rafael Lozano-Hemmer, che usano i battiti cardiaci, o temperature corporee, dei visitatori per creare giochi di luce e suono, rendendo letteralmente “visibile” la vita di chi guarda.
Esempi in cui la tecnologia non è fredda, ma vibrante: dà voce a ciò che normalmente resta invisibile. I numeri diventano emozione.
Cosa ci insegna tutto questo? Che la bellezza può nascere anche dai dati, se c’è uno sguardo capace di trasformarli in emozione.
L’arte data-driven ci mostra un futuro in cui l’umano e il tecnologico non si escludono, né si contrappongono, ma si amplificano a vicenda.
È un invito a non temere le macchine, ma a usarle come nuovi strumenti per raccontare chi siamo. Perché, come sempre, l’arte serve a questo: a dare forma all’invisibile, con i mezzi del proprio tempo.
E oggi, il nostro tempo parla in linguaggio digitale. Sta a noi decidere se quel linguaggio può ancora commuovere.
Questo dialogo tra cultura, arte e tecnologia è lo spirito stesso di SHerIL – Samnium Heritage Innovation Lab, il nuovo centro multidisciplinare e interdipartimentale creato all’Università del Sannio.
Un luogo dove scienza e umanesimo si incontrano per generare futuro.
31.10.2025
Il mio intervento in occasione della presentazione del libro di lessandro Campi “Una esecuzione memorabile - Giovanni Gentile, il fascismo e la memoria della guerra civile”.
Il libro ci riporta a una vicenda dolorosa, l’uccisione di Giovanni Gentile il 15 aprile 1944, cercando di comprendere il contesto in cui l’esecuzione è maturata e ciò che essa ha significato, e continua a significare, per la memoria collettiva del Paese. Una morte che già nel titolo del libro è definita memorabile, e che nel testo viene descritta come inevitabile, necessaria, annunciata, attesa, esemplare e paradigmatica.
Il libro di Campi, con il suo stile sobrio e analitico, ci invita a rileggere quell’episodio non come un fatto isolato, ma come il punto in cui si concentra la tragedia della guerra civile italiana e, più in profondità, come una cesura decisiva nel processo di formazione dell’identità culturale e morale del Paese, successiva a quella politico-istituzionale del Risorgimento.
Un inciso, uso il termine guerra civile per descrivere la tragedia che ha vissuto l’Italia fra il ‘43 e il ’45 perche questo è il termine che usa l’autore, pur ritenendo che questo termine non rende giustizia al carattere di lotta di liberazione che è stato proprio della Resistenza. Ci tornerò.
Proprio perché il tema è carico di implicazioni, credo sia importante affrontarlo con chiarezza e rispetto, ma anche con la consapevolezza che il modo in cui raccontiamo il passato non è mai neutro. E quindi, prima di addentrarmi nelle mie brevi considerazioni, voglio sin d’ora chiedere scusa se a qualcuno la mia lettura della vicenda che il professor Campi affronta nel libro apparirà non neutrale. Non pretende di esserlo.
Giovanni Gentile è stato definito il “filosofo del fascismo”. So che ad alcuni questa definizione non piace. Lo stesso testo di Campi sembra suggerire una lettura diversa; più che filosofo del fascismo, o anche solo filosofo fascista, Gentile come filosofo e fascista, o, ancora meglio, filosofo e Mussoliniano.
Eppure, il suo ruolo chiave nel definire l’architrave culturale del regime è innegabile.
Gentile vedeva nel fascismo la prosecuzione e il compimento del processo risorgimentale, l’esito coerente di una storia volta a unificare spiritualmente e moralmente la nazione dopo l’unità politica. Questa visione, pur suggestiva sul piano filosofico, si è rivelata fragile alla prova della storia.
Il Risorgimento fu infatti un moto di emancipazione, animato dall’idea di libertà, dalla ricerca di una cittadinanza moderna e dal pluralismo delle culture civili europee; il fascismo, al contrario, segnò la negazione di quella libertà, la subordinazione dell’individuo allo Stato, la riduzione del dissenso a delitto. Laddove il Risorgimento cercò di includere e costruire una nazione attraverso la partecipazione e la legge, il fascismo produsse esclusione, violenza e culto dell’obbedienza.
Attribuirgli il ruolo di completamento del Risorgimento significa dunque rovesciarne il senso: trasformare un progetto di libertà in una dottrina di dominio. È forse proprio in questa contraddizione che si misura l’ambiguità più profonda del pensiero di Gentile, la sua incapacità di riconoscere che la vera unità morale di una nazione sta nella sua intrinseca pluralità, e non può nascere dalla costrizione, ma solo dal libero consenso.
Gentile non è stato solo il filosofo del fascismo, o il filosofo fascista; ha assunto, nel regime, un ruolo di politico e di organizzatore culturale. Ma quello che conta di piu, ai fini di queste brevi considerazioni, è il fatto che Gentile è stato anche, e forse soprattutto, un caso-limite della coerenza intellettuale.
Un pensatore che, fino all’ultimo, ha creduto che il fascismo fosse la forma politica necessaria dello Stato etico, il coronamento dell’idealismo attualista. Quella coerenza, però, lo ha condotto a un isolamento tragico: quando la storia reale si sbriciolava attorno a lui, Gentile continuava a credere in una possibilità di unità spirituale della nazione, nel dialogo fra italiani, nel superamento delle divisioni, e lo faceva mentre il Paese era diviso in due e la guerra civile era una realtà di sangue.
Il suo assassinio, davanti a casa sua, non è solo un episodio di violenza politica: è un gesto che racchiude, simbolicamente, la definitiva rottura del dialogo tra due Italie. Una morte, dunque, che non poteva non caricarsi di significati: per alcuni, la giusta punizione di un collaborazionista; per altri, la soppressione del più grande filosofo italiano del novecento; per tutti, comunque, un trauma da ricordare o da dimenticare.
Il merito principale del libro di Campi, secondo me, sta proprio qui: nel riconoscere la complessità di quell’evento e nel ricostruirne le stratificazioni memoriali. Campi non cade nella trappola né della condanna sommaria né dell’agiografia.
Rilegge Gentile attraverso le lenti della memoria collettiva, mostrando come ogni epoca, ogni clima politico, abbia riscritto quell’esecuzione secondo i propri bisogni simbolici. Negli anni immediatamente successivi alla guerra, Gentile era il traditore, l’intellettuale che aveva scelto il fascismo contro la libertà. Nei decenni successiivi, con la crisi delle ideologie, la figura si fa più ambigua: un uomo coerente, ma perduto in una fede sbagliata. Negli ultimi decenni, infine, è emersa una tendenza alla riconciliazione memoriale: Gentile diventa un martire della coerenza, un uomo che ha creduto fino in fondo in ciò che pensava.
Campi documenta tutto questo con rigore, con una grande attenzione alle fonti e con uno sguardo che unisce storia delle idee e storia politica. Un lavoro che non indulge in moralismi né in revisionismi.
Ma è proprio da questa sobrietà che deriva, a mio avviso, anche un punto di criticità di questo testo.
Campi mostra bene la difficoltà italiana di elaborare una memoria della guerra civile, ma tende, almeno a tratti, a trattarla come un problema culturale, di “riconciliazione”, o se preferite di linguaggio, più che come una questione etica e politica.
Fino a voler vedere in Gentile un pacificatore, un sostenitore attivo della moderazione e della concordia fra le parti. A mio avviso, però, la pacificazione non deve cancellare le responsabilità, ma piuttosto deve unire nella condanna. In questo senso Gentile è tutt’altro che pacificatore.
Voglio sottolineare come la memoria non sia mai neutra. È un campo di conflitto, non solo di interpretazioni ma di valori. Riconciliare non significa mettere sullo stesso piano la vittima e il carnefice, ma capire come la storia produce responsabilità.
Riconciliazione allora non può non significare ritrovarsi uniti nei valori dell’antifascismo, valori che sono alla base della nostra Costituzione repubblicana. E questo è importante ribadirlo, oggi più che mai, in un tempo in cui fatti e letture che fino a pochi anni fa apparivano acquisiti, vengono, a volte subdolamente, a volte esplicitamente, messi in discussione. Ed ecco che quella del 25 aprile diventa una commemorazione divisiva; gli antifascisti fucilati alle Fosse Ardeatine vengono commemorati come italiani e non per quello che erano, antifascisti; le vittime di via Raselli vengono descritte come una innocua banda musicale; la nostra Costituzione smette di essere profondamente e intimamente antifascista.
C’è anche chi prova a glissare sulle responsabilità, trincerandosi dietro l’affermazione che il fascismo è morto ottanta anni fa. Si tratta, in realtà, di un artificio che si muove sul piano linguistico, tanto abile quanto sterile. Confondere il fascismo storico con il fascismo come visione del potere e dei rapporti sociali significa negare che certe idee, l’autoritarismo, il culto dello Stato forte, il disprezzo del dissenso, possano ripresentarsi sotto altre forme. È una sovrapposizione che, ancora una volta, anestetizza la memoria e dissolve la responsabilità.
Nel caso di Gentile, la domanda non è soltanto “perché è stato ucciso”, ma anche “perché si trovava, in quel momento, da quella parte della storia”. E questa è una domanda scomoda, ma necessaria. Non fu un ingenuo, né un intellettuale trascinato dagli eventi. Fu un pensatore lucidissimo che scelse consapevolmente di legare il proprio destino a quello del fascismo, non per opportunismo ma per convinzione.
E questa convinzione si tradusse anche in atti concreti. Nel 1931, da ministro e da guida morale del mondo accademico, Gentile sostenne il giuramento di fedeltà al regime imposto ai professori universitari: un atto che costrinse l’università italiana all’obbedienza politica e segnò la fine dell’autonomia del sapere. Un episodio che dice molto più di tante teorie: mostra come la sua idea di Stato Etico diventasse, nella pratica, Stato che pretende sottomissione, anche nelle aule dove dovrebbe regnare il libero pensiero.
Per questo, la coerenza non basta a salvarlo sul piano morale: un errore coerente resta un errore. Capire Gentile, come fa Campi, è necessario; ma comprendere non deve diventare un modo elegante per assolvere.
Questo ci porta al cuore del problema: la memoria della guerra civile. L’Italia, a differenza di altri Paesi usciti da guerre fratricide, non ha mai elaborato fino in fondo quel trauma. Abbiamo preferito, spesso, la retorica della pacificazione a quella della comprensione storica. Ma una memoria matura non è quella che pacifica, è quella che riconosce la complessità senza smarrire o confondere le responsabilità.
Sul piano generale, allora, diventa necessario riaffermare cos’è stata realmente la Resistenza e perchè la lotta di liberazione non è stata una semplice guerra civile. Si è trattato, in realtà, di un gigantesco fenomeno di disobbedienza civile, come l’ha definita Norberto Bobbio. Molto più di una semplice guerra fraticida fra visioni diverse.
Nel caso specifico di Gentile, riconoscere la complessità senza smarrire, negare o annacquare le responsabilità, significa ammettere insieme due verità: che fu un grande filosofo, e che fu anche un uomo che mise la sua intelligenza dalla parte sbagliata della storia, al servizio di un regime totalitario. Solo se teniamo insieme queste due verità, senza annullarne nessuna, possiamo dire di aver fatto davvero i conti con la storia.
In questo senso, il libro di Campi è prezioso, non perché ci offra una soluzione, ma perché ci costringe a ritornare sul nostro modo di ricordare, evitare che questo si sbiadisca o si confonda. Ci mostra quanto la memoria sia, ancora oggi, un terreno instabile, dove ogni gesto di interpretazione rischia di diventare un gesto politico.
Credo che leggere Gentile oggi significhi, in fondo, riflettere su che cosa chiediamo agli intellettuali: se li giudichiamo per le loro idee o per le conseguenze delle loro idee. E significa anche chiederci se la nostra democrazia abbia imparato a convivere con le proprie ombre, o se continui a cercare una pacificazione troppo facile.
Chiudo dicendo che “Una esecuzione memorabile” non è solo un libro su un filosofo e sulla sua morte. È un libro su di noi, sul modo in cui ricordiamo, dimentichiamo, riscriviamo la nostra storia. E, forse, anche un invito implicito, che vale per tutti, studiosi e cittadini, a praticare una memoria critica, capace di rispetto ma non di indulgenza.
20.10.2025
Il nuovo Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne contiene un passaggio molto controverso in cui si ammette che alcune aree non possono realisticamente invertire la tendenza al declino e si ipotizza la necessità di un piano mirato per gestire un “percorso di cronicizzato declino e invecchiamento”.
Al di là del confronto politico che ne è immediatamente scaturito, nel quale non entro, tale visione pone un nodo culturale cruciale: la legittimità dell’abbandono programmato.
A questa visione fa riscontro quella dell’Unione Europea, che si ispira ad un principio ben diverso: nessun territorio può essere lasciato indietro. Principio che è alla base del “Long-term vision for rural areas” e di tutto il Green Deal Europeo. Una visione che, pur consapevole delle difficoltà, ribadisce la volontà di garantire pari diritti e accesso ai servizi a tutti i cittadini, ovunque vivano.
Nella visione europea anche le aree più vulnerabili vengono immaginate come resilienti, cioè capaci di adattarsi a nuove funzioni (es. turismo lento, biodiversità, agroecologia, transizione ecologica, innovazione tecnologica e innovazione sociale), non semplicemente come territori da accompagnare al tramonto.
Il piano italiano, al contrario, non propone un’alternativa trasformativa per questi territori, non identifica nuove vocazioni territoriali, ma sembra enunciare un destino statico e passivo. Il rischio di dare forza ad un processo di cittadinanza differenziata (o dovremmo dire diseguale?), in cui l’abitare in certe zone comporta meno diritti, mi sembra evidente.
Ma c’è un altro aspetto che il piano italiano sembra trascurare, il significato simbolico della rinuncia. Cosa implica dire a una comunità che il suo futuro è quello dell’invecchiamento irreversibile? Come reagisce una popolazione alla constatazione che la propria esistenza collettiva non rientra più nell’orizzonte di sviluppo del Paese? In che modo questo declassamento influenza le scelte dei giovani, delle famiglie, degli imprenditori?
In oltre trent’anni di lavoro come educatore e ricercatore all’Università del Sannio, un Ateneo delle aree interne, una Università di frontiera, ho incontrato migliaia di ragazze e ragazzi alla ricerca di motivi per restare. Giovani professionisti pronti a mettere talento, competenze ed energia al servizio di un riscatto collettivo.
Le università delle aree interne sono motori di sviluppo e fucine di talenti: poli di innovazione diffusa, capaci di attrarre risorse, imprese, cultura. Senza un cambio di prospettiva, rischiamo che questi giovani, ricordiamolo, formati con investimenti pubblici, vadano inevitabilmente ad ingrossare le fila di chi cerca opportunità nei grandi agglomerati urbani, aggravando tanto il depauperamento demografico delle aree interne quanto la pressione sociale ed ecologica delle città.
Insomma, parlare di un percorso di cronicizzato declino rischia di contribuire a far si che l’abbandono diventi una profezia che si auto‑avvera. Ecco allora che il piano, sicuramente realistico, mostra di essere culturalmente rinunciatario. Rinunciatario nell’immaginare una nuova idea di ruralità, nel rassegnarsi a un ruolo di gestione del declino. Perché accettare che alcune aree non possano essere salvate è forse realistico. Ma progettarne l’abbandono è una scelta, non una fatalità.
Il Sannio Quotidiano, 5.7.2025
Il cellulare è il nuovo nemico pubblico numero uno nelle scuole superiori. A stabilirlo è la circolare n. 3392 del Ministero dell’Istruzione e del Merito, che vieta l’uso degli smartphone in classe, salvo rare eccezioni come studenti con BES/DSA o specifici progetti didattici legati all'informatica e alle telecomunicazioni. Una decisione che va sicuramente incontro all’opinione pubblica, preoccupata da dipendenze digitali e calo dell’attenzione, ma che rischia di incidere sulla capacità della scuola di dialogare con il presente.
L’assunzione che sta alla base della circolare è chiara: lo smartphone distrae, danneggia il rendimento e rischia di compromette il benessere dei ragazzi. Tutto vero, se usato senza criterio. Ma davvero la risposta migliore è il divieto? Io penso di no. Semplicemente, perché lo smartphone non sparirà dalle vite dei ragazzi. Ecco perché, invece di bandirlo, dovremmo puntare sull’insegnare a usarlo bene.
Con il cellulare si possono fare ricerche veloci durante una lezione di storia, creare quiz interattivi che trasformano la verifica in un gioco, tradurre in tempo reale o dialogare con un assistente artificiale durante una lezione di inglese, esplorare modelli 3D di una cellula o di un edificio antico. Soprattutto, si possono sviluppare progetti di educazione civica digitale, ad esempio con attività di fact-checking per imparare a distinguere notizie affidabili da fake news. Possibilità infinite, che un regolamento cieco pretende di cancellare con un colpo di spugna.
La scuola ha il dovere di formare cittadini consapevoli. E nel tempo che viviamo, la consapevolezza digitale gioca un ruolo fondamentale. Se l’obiettivo è ridurre i rischi di dipendenza, la via non è la proibizione ma l’educazione. In quest’ottica, la circolare si pone come una semplice scorciatoia che evita di affrontare il nodo vero, cioè insegnare un uso responsabile dello smartphone.
Mentre si vietano i telefoni, il mondo esterno corre. La società e il mondo del lavoro chiedono sempre più competenze digitali, capacità di navigare tra informazioni, distinguere il vero dal falso, usare strumenti tecnologici per creare e collaborare. Vietare lo smartphone a scuola significa lasciare i ragazzi soli ad affrontare tutto questo fuori dall’aula, e quindi senza una guida.
Il divieto generalizzato non è una vittoria, ma una resa: la resa davanti alla complessità del presente. Lo smartphone non è solo un pericolo, è anche una risorsa, e sta a noi adulti, insegnanti, genitori, istituzioni, decidere se usarlo come un alleato o trasformarlo in un tabù. È questa la vera sfida che abbiamo di fronte.
Il Mattino, 31.8.2025
Se proprio siete convinti che andare a votare per il referendum sulla cittadinanza dell’8 e 9 giugno sia inutile, fate pure. Chi sono io per distogliervi da impegni più importanti e urgenti? Del resto, votare non è un dovere. Lo hanno detto persone ben più autorevoli di me, vorrà dire che è vero. O no?
Ma prima di archiviare anche questo referendum come “tema che non mi riguarda”, fate un piccolo sforzo. Una pausa. Pensate, giusto per un momento, a chi invece voterebbe volentieri… se solo potesse.
Pensate a Benedetta. Sì, lo stesso nome di mia figlia. Anzi, Agbéda, così la chiamano i nonni in lingua Yoruba. Nata a Benevento, nel rione Triggio, dove le strade sono strette e i sogni straripanti. I suoi genitori sono nigeriani, regolari oggi, ma con un passato fatto di carte bollate, permessi scaduti, contratti a termine e speranze a lunga scadenza. Una vita normale, insomma. Talmente normale da essere invisibile. Da non consentire di mettere insieme la documentazione per comprovare i dieci anni continuativi necessari a richiedere la cittadinanza italiana.
Benedetta ha fatto la scuola elementare a Benevento, e ora frequenta le medie. Parla perfettamente l’Italiano. Certo quando è particolarmente presa la cadenza dialettale tende ad accentuarsi e di tanto in tanto si rivolge ai compagni e alle compagne di classe con espressioni non proprio da Accademia della Crusca, tipo “ ‘o fra…” oppure “amoooo…”. Ma non succede troppo spesso, non più spesso di quanto non accada agli altri ragazzi della sua scuola. È perfettamente integrata, fa sport (è veramente brava a padel) e da poco ha cominciato a suonare il basso elettrico (di questo i vicini non sono proprio entusiasti).
Gli amici non l’hanno mai percepita come diversa. Certo c’è stata quella volta in cui Marta, compagna di classe, furibonda le ha gridato “vattene via, vattene al Paese tuo”. Ma poi è scoppiata a piangere, ha abbracciato Benedetta/Agbéda e le ha confessato che non era arrabbiata con lei, ma con Aldo. Eh, sì, Aldo aveva occhi solo per Benedetta e non si accorgeva di quanto Marta fosse perdutamente innamorata di lui. Capita a quell’età.
Ovviamente Benedetta qualche difetto ce l’ha, tipo non tifare per il Benevento (niente da fare, il calcio proprio non la coinvolge, preferisce il padel, più dinamico, più moderno) e ascoltare musica trap. Ma si tratta di colpe veniali e diffuse, no?!? Sicuramente perdonabili, chi è senza peccato scagli la prima pietra.
La differenza vera tra Benedetta/Agbéda e gli altri ragazzi della sua scuola è una sola: Benedetta NON è italiana. O meglio, è italiana in tutto, pregi e difetti compresi, tranne che per la legge.
Perché per lo Stato, Benedetta non è italiana. Forse lo sarà, forse no. A 18 anni potrà fare richiesta, ma solo se riuscirà a dimostrare di aver vissuto qui ininterrottamente, senza intoppi, senza viaggi improvvisi, senza un parente malato che la costringa a tornare nel “Paese d’origine” che, inutile dirlo, non conosce. E avrà solo un anno per decidere se farlo, proprio mentre probabilmente starà cercando di capire cosa vuole fare da grande. Auguri.
Il referendum non cambia tutto questo. Non in modo diretto, almeno. Non è la rivoluzione dello ius soli, quella che dice: “nasci qui, sei di qui”. Troppo facile, troppo logico, troppo umano. Però, se vincesse il SÌ, le cose si muoverebbero un po’. I genitori di Benedetta potrebbero ottenere la cittadinanza in cinque anni, non dieci, e trasmetterla a lei senza aspettare i fatidici diciotto. Così, magari, Benedetta alle superiori potrebbe fare un Erasmus, cosa che oggi non le è consentita. Un piccolo passo per la burocrazia, un enorme salto per la vita di una ragazza.
Quindi sì, potete anche non votare. Restare a casa. Dirvi che tanto non cambia nulla.
Oppure, potete pensare a Benedetta/Agbéda, e a tutti quelli che hanno tutto tranne il diritto di contare. E dare loro voce. Con un SÌ, se vi va.
Corriere del Mezzogiorno, 6.6.2025